Quel che ne rimane oggi è limitato alla struttura basale che sorreggeva la vera e propria villa, i cui resti elevati sono ormai scarsi, ma dovevano servire, oltre che a supporto edilizio della villa sovrastante, come serbatoio di approvvigionamento idrico e deposito agricolo.
Ce lo racconta Furio Fasolo, un architetto romano che nel 1966 inserì le rovine in un progetto di studio per i suoi studenti universitari a Roma.
I pochi resti in elevato, scrive “determinano alcuni allineamenti e danno in primo luogo la dimensione generale della villa che si estende approssimativamente in un rettangolo di circa 100×40 ml”.
Quando Fasolo e i suoi studenti si inerpicarono su per il colle riconobbero un “buon opus reticolatum abbinato all’impiego di ottimo laterizio. Qualche frammento di pittura a riguardi – scrivono i ricercatori – e strisce di vitale colore 3/4 stile conferma la datazione che si evince dai tipi murarii: un buon periodo flavio”.
Riassumendo: abbiamo una villa imponente, che affaccia su un lago, costruita con materiali pregiati (dunque costosi) con tipi murarii risalenti alla seconda metà del primo secolo. Una trentina d’anni dopo la morte dell’Imperatore Tiberio, per intenderci.
Eppure altre fonti rivelano che la villa restò per parecchi decenni nelle proprietà della famiglia Mamurra.
L’ufficiale romano e prefetto degli ingegneri di Cesare, Lucio Mamurra, uomo ricchissimo, era proprietario della splendida e già nota villa di Formia, sua terra natale. Vissuto però, più di un secolo prima.
Il pregio e la precisione delle costruzioni ci stanno, se a dirigere i lavori fu un ingegnere di Cesare, tra gli ideatori delle più grandi opere costruite nelle sue campagne come un ponte sul Reno, una nave per la Gran Bretagna e l’incredibile opera ingegneristica che fu la doppia circonvallazione di Alesia, in Francia.
In epoca flavia, probabilmente, i discendenti di Mamurra avranno apportato modifiche alla villa, per piacere o necessità. E allora ecco le opere più tarde.
Il buon Mamurra era un romano (tra l’altro vergognosamente ricco) e da buon romano amava gli agi. Costruire ville era un po’ una moda, seguita alla follia da chi poteva permetterselo. E le ville romane non potevano prescindere da opere idriche perfette per il rifornimento e lo smaltimento dell’acqua oltre che a vaste attività agricole o produttive.
E così se Mamurra aveva la sua bella residenza a Formia, a Sperlonga aveva a disposizione un grande bacino naturale da adattare a peschiera (l’odierno lago S. Puoto) e un terreno fertile per la produzione di olio di oliva e vino, com’era in largo uso all’epoca.
L’area era ben nota per la produzione di un vino delizioso, il Cecubo, scoperto da Appio Claudio Cieco in occasione della costruzione della via Appia, nel 300 a.C. Su quel colle in particolare, nel versante opposto, in quella conosciuta oggi come località S.Raffaele la varietà autoctona Abbuòto cresceva rigogliosa.
Da quando, poi, nel 184 a.C. la via Flacca aveva collegato Tarracina a Formiae via costa, i ricchi romani avevano iniziato a guardare con appetito quest’area dapprima inesplorata e ricca di potenzialità produttive, e a costruire qua e là residenze esclusive (vedi anche Villa Prato a Sperlonga, dotata di impianto termale, cisterne per l’acqua, frantoi per l’olio e il vino e una peschiera a mare).
Giulio Scalfati ci dà qualche informazione sulle ville romane.
“Occorre tener presente che una villa non poteva ospitare meno di trecento schiavi addetti alla coltivazione del territorio aziendale perché esso non poteva estendersi su meno di centocinquanta ettari di terre coltivate intensivamente, cioè vigneti e anche oliveti, e su almeno altri duecento ettari destinati a cereali e pascoli.
Una villa, cioè un’azienda di quattrocento ettari, era quindi una media azienda agricola intorno alla residenza del padrone.
Era questo il territorio aziendale che circondava la villa di Tiberio così come altrettanto dovette essere quello che circondava l’altra villa, esistente sulla montagna del laghetto, che fu di tal Mamurra”.
Non sappiamo fino a quando la famiglia Mamurra godette di questa villa sul lago. La crisi economica del terzo secolo rese certamente sterili i profitti delle vigne e degli oliveti e le famiglie romane forse preferirono trasferirsi altrove.
Ma sappiamo che la villa di Mamurra sul lago a Sperlonga fu sede di un culto dedicato ad Ercole. D’altronde, la tradizione pagana vuole che la stessa città di Fondi sia stata fondata da quel semidio e non è da escludere che i fondani abbiano costruito diversi templi a lui dedicati nei dintorni (non è un caso forse che anche ad Itri sia spuntato un tempio dedicato ad Ercole).
Probabilmente le incursioni dei Visigoti di Alarico nel V secolo furono fatali anche per la villa di Sperlonga sede di un culto pagano. E le sontuose ville dei ricchi romani furono definitivamente abbandonate.
Poi, secondo quanto riporta Scalfati, il tempio divenne rifugio di pellegrini e, in epoca cristiana si diffuse la credenza di un “San Potito”, erede legittimo della villa, già tempio di Ercole.
In realtà non c’è nessuna notizia dell’esistenza di un tale Santo. Erano chiamati “Potiti” però i sacerdoti di Ercole. Ed ecco spiegato l’arcano.
Il tempo e i racconti orali devono aver trasformato quei “potiti” in un “San Potito” da cui l’attuale nome del lago.
Solo qualche secolo dopo i Conti di Fondi e i Vescovi di Gaeta riconobbero il Monastero di San Potito, che sorgeva sulle rovine del tempio di Ercole e della villa di Mamurra.
Come già accennato in apertura, i resti della villa, che fu anche tempio pagano e monastero, oggi sono nascosti in una fitta vegetazione in località Vallaneto, sul versante del colle che affaccia sul lago San Puoto.
Fortunatamente, arrivare fin lì non è molto agevole e le rovine sono ben protette. Questo evita, al momento, ulteriori danneggiamenti che rischierebbero di far scomparire tracce utili ad un eventuale scavo.
L’augurio è che un giorno il sito possa essere recuperato per essere studiato meglio, insieme a quello di Villa Prato, altra strepitosa villa romana di cui parleremo in un altro articolo.
Nel frattempo gustiamoci un sorso di Abbuòto, oggi coltivato a S. Raffaele dall’Azienda Monti Cecubi e immancabile nel Tour del Vino dell’Antica Roma.
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